AVVOCATO DIFENSORE di Fabio Dal Din

La giustizia militare nelle memorie manoscritte del tenente Angelo Casiraghi.


Il diario inedito, edito con il titolo La Guerra Gloriosa, costituisce un interessante lavoro nell’ambito della memorialistica bellica; esso infatti tratta in maniera chiara, precisa e scorrevole della propria esperienza militare, non solo, lo scritto offre anche numerosi argomenti e spunti di riflessione. Nella fattispecie spicca per interesse quello della giustizia militare vigente al tempo tra le file del Regio Esercito.

 

 Durante il periodo di riposo alle pendici del Grappa Casiraghi viene contattato una notte di maggio da un portaordini che alle ore 2 recapita un messaggio nel quale si designa il tenente avvocato difensore presso il tribunale di guerra di San Zenone degli Ezzelini, il tutto per le ore 8 del mattino seguente. “Io, mai stato avvocato, mi vedo improvvisamente innalzato a tale professione […] Ma difensore di chi? Di che cosa erano imputati? Che mi faceva ridere poi, era il pensiero del come dovevano svolgersi i processi, perché dal modo che nominavano gli avvocati difensori era facilmente arguibile quale doveva essere il risultato – sempre condanne”. L’affermazione del nostro appare fin da subito cogliere nel segno, il Codice Penale Militare italiano della Grande Guerra era di fatto già al tempo, nato nel 1840, piuttosto vecchio e poco adatto alle esigenze della guerra moderna; è pur vero che erano occorsi degli aggiustamenti nel tempo per modernizzarlo ma tuttavia risultava comunque inadeguato, faceva scalpore poi che tra le peculiarità del sistema, nel caso di tribunali straordinari di guerra, chiunque potesse essere nominato a svolgere le varie funzioni al suo interno pur non essendo pratico di diritto. Grande limite questo, poiché come logica conseguenza si potevano avere procedimenti superficiali ed iniqui. Il ruolo di avvocato difensore poi appariva ancor più delicato, potendo esso essere rivestito al massimo da un capitano, mentre per l’accusa non vigevano limiti di grado, non solo, quest’ultima poteva rivolgere agli imputai domande senza alcun limite mentre la difesa al contrario poteva formulare quesiti solo attraverso il presidente, con l’eventualità di vedersi negata la possibilità di sentire testimoni anche su fatti importanti…

tempi dei processi in tempo di guerra erano poi molto stretti, si svolgevano in giornata, ecco il perché di sei imputati da processare in un sol giorno, una volta tolta la seduta il tribunale poteva ritrarsi per deliberare oppure procedere immediatamente…
Il CPM, in perfetta osservanza prevedeva altresì che le sentenze si dovessero leggere “al rullo di tamburi o a suon di tromba”, anche il luogo in cui si istituivano i processi erano scelti solitamente in grandi cortili o edifici amministrativi, come in questo caso, nel palazzo comunale di San Zenone, luoghi dunque atti a radunare ampie platee con il preciso intento di rendere il più in vista possibile la procedura tra i militari per l’esempio rispondendo così a quel criterio di platealità tanto caro al sistema dell’epoca; non ultime le sentenze che spesso erano piuttosto severe (ma di queste ce ne occuperemo a breve).

La giustizia militare italiana si caratterizzava perciò per essere rapida, esemplare e plateale. Gli accusati affidati alle cure del tenente Casiraghi erano poi in tutti i casi soldati semplici giovani ed alcuni giovanissimi, le accuse ad essi rivolte costituiscono per noi un interessantissimo esempio dei reati più comuni durante la Grande Guerra:

il reato di diserzione, in assoluto il più diffuso, era anche il più facile in cui incorrere; bastava, stando al codice, rientrare presso il proprio reparto con un ritardo di 24 ore da un permesso o licenza diventando così automaticamente disertori. Negli ultimi periodi del conflitto si tese a sorvolare sempre più spesso su questa accusa, consapevoli della facilità con cui si poteva infrangere una regola tanto stringente quanto assurda, non mancavano comunque eccessi di zelo e rigore nell’applicazione della pena… Vi erano poi effettivi casi di diserzione come per esempio gli italiani residenti all’estero che non si presentavano al rimpatrio per la chiamata alle armi o fughe durante i periodi di riposo dandosi alla macchia.

Il secondo reato più comune, in questo caso attribuito al secondo difeso, era quello dell’insubordinazione, una accusa che variava molto da caso a caso e per questo passibile di interpretazioni assai diverse; caso invece diverso costituiva l’automutilazione volontaria o autolesione dettata dal proposito dei soldati di sottrarsi alla vita militare, la casistica durante il conflitto si va via via sviluppando in una moltitudine di stratagemmi e trovate tanto ingegnose quanto spaventosamente dolorose, il tutto per sottrarsi al dovere e ai disagi del fronte. Si iniziò così a rendersi inabili stritolandosi mani e piedi con vanghette, pietre ed oggetti contundenti allo spararsi sugli arti con un colpo di fucile o sfregiandosi con altri tipi di armi, i tribunali istituivano così spesso apposite commissioni mediche con il compito di verificare le ferite degli accusati arrivando così a trucchi sempre più sofisticati ed invisibili come iniezioni sottopelle di petrolio, benzina o liquidi fecali per provocare ascessi al forarsi i timpani con chiodi fino al crearsi di una vera e propria medicina antagonista portata avanti spesso grazie a speziali e medici compiacenti che somministravano ai militari dosi eccessive di caffeina ed altri stimolanti per produrre effetti anomali all’organismo in vista delle visite mediche militari. Caso a parte erano invece i processi a carico degli ufficiali italiani, per la verità molto pochi, che solitamente vedevano come reato principale quello di furto o, come si diceva all’epoca, cupidigia… Che poteva tradursi soprattutto nel furto di beni e danni alle proprietà che venivano requisite ed occupate nelle zone a ridosso dei settori di combattimento.

Accadeva poi che le sentenze al momento della lettura provocassero negli imputati reazioni quale contentezza e compiacimento anche in caso di condanna, prospettandosi la prigione quale alternativa preferibile al fronte, non bisogna però credere che i penitenziari militari fossero accomodanti coi detenuti, anzi, esistono casi di soldati che presentavano tramite avvocato la richiesta di reinserimento ed impiego alla prima linea piuttosto che la detenzione. La giustizia militare poi largheggiò in condanne pecuniarie ma soprattutto ergastoli e fucilazioni, consegnando il Regio Esercito al poco lusinghiero primato di esercito della Grande Guerra col maggior numero di esecuzioni capitali tramite fucilazione eseguite: 750 ufficialmente compiute. Le condanne, al di fuori delle fucilazioni, prevedevano un ampio uso di ergastoli e pene pluriennali, il comando supremo del resto caldeggiava i PM alla massima severità e procedere in senso opposto poteva tradursi in conseguenze svantaggiose per gli stessi giudici istruttori; esistono tuttavia casi di condanne eque e con esiti controtendenza, frutto queste di individui consapevoli della materia e che non intendevano farsi influenzare.

L’ergastolo si rivelò poi la pena largamente più diffusa, circa 15.000 durante la guerra ed oltre 40.000 pene detentive superiori ai sette anni, la questione di fondo è che esso veniva applicato anche in casi che oggettivamente non potevano prevedere una condanna così severa e di questo fatto persino il governo ne era consapevole, tanto che il 2 settembre 1919 venne approvata la cosiddetta amnistia ai disertori, un decreto che svuotava le regie galere dei soggetti i cui processi erano stati revisionati e giudicati tali da non prevedere una punizione così dura cercando così di sanare una questione che già al tempo era invisa a tutti. Casiraghi stesso, magari inconsapevolmente, fa questa riflessione affermando “dico (all’avvocato Pizzagalli) che lui è un po' troppo abbondante nel proporre le condanne alla fucilazione, ed altri contorni, e mi risponde ridendo di cuore, che il CPM in tempo di Guerra prescrive tali condanne come tariffa minima”, un colloquio gioviale tra i due ufficiali il quale però cela nelle sue affermazioni motivo di riflessione…

Oltre alla questione della giustizia militare il diario poi riporta alla luce altri fatti comunque collegati al tema; in particolare quello delle punizioni sommarie che erano al tempo diffusamente applicate; quando ancora il tenete si trova in retrovia ricorda infatti  che “in occasione della marcia del sabato […] un povero nostro compagno, ammalato di artrite, e che quasi non poteva reggersi, non essendo capace di portare lo zaino, si era lascia cadere su un mucchio di ghiaia laterale alla strada; il tenete Zanetti, informato gli andò vicino e disse testuale: “se fossimo al fronte ti farei saltare le cervella, qui non potendolo fare ti darò quindici giorni di rigore” e mantenne la parola! Il malumore e l’ostilità attiratosi da quell’infelicissimo fatto, fu unanime, e da quel giorno nessuno lo poteva sopportare”. Il rigore in cella così come la legatura al palo al di fuori della trincea di prima linea erano così tra le punizioni sommarie più frequentemente applicate dall’esercito.

Lo stesso dicasi nell’accenno che l’autore fa del tragico misfatto di Noventa Padovana ad opera del generale Graziani, fatti, quelli appena riportati, che non facevano che accrescere l’ostilità e il desiderio di vendetta da parte della truppa, vendetta questa che poteva tradursi, e non sono rari i casi, in morti in circostanze sospette degli ufficiali presi di mira, perseguitando i sorvegliati anche a distanza di anni dalla fine del conflitto e Graziani ne è l’esempio più lampante.

La giustizia militare ed il sistema penale vigente nell’esercito italiano durante la Prima guerra mondiale presenta così luci ed ombre, un codice penale concepito per piccoli eserciti risorgimentali ed applicato a 5 milioni e mezzo di cittadini mobilitati, viene poi spontaneo pensare che sì, da un lato era certamente impossibile ottenere disciplina e rigore da una massa così abnorme di soldati se non con la costante minaccia di metodi coercitivi improntati alla massima severità ma è altrettanto vero che troppo spesso si ricorse a punizioni estremamente pesanti per colpe spesso minime con Governo e Comando Supremo accomodanti e consapevoli di questa condotta. Vale la pena ricordare anche che il sottotenente si dedicò anche alla mansione di censore della posta presso gli uffici postali sul campo; non è il suo caso, ma anche gli addetti spesso si facevano braccio invisibile dei tribunali di guerra segnalando e denunciando affermazioni inopportune e situazione sospette. Un sistema dunque efficiente e ben strutturato che alla vigilia di Caporetto, durante l’estate 1917, aveva raggiunto il suo apice. Non è poi vero che Cadorna soltanto incoraggiò il sistema, anche Diaz mantenne le regole vigenti e non solo; i tribunali continuarono a lavorare alacremente anche durante l’ultimo anno, soltanto si iniziò piuttosto a ricorrere meno frequentemente alle fucilazioni, lungi comunque dall’approdare a quella guerra dalla condotta democratica cui spesso siamo stati portati a credere.

Fabio Dal Din


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